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XV.

E' if bel temone un fin, lungo, e lucente
Smaraldo; ambe le rote fon criftalli,
Seguon gli amori il carro, dolcemente
Scherzando trà gli fior azurri, e giallis
D'arpe, e di lire alta armonia fi fente
! Si veggon mille giochi, e lieti balli,
Nell' una man l'eburnea verga avea,
E nell' altra la briglia Citerea.

XVI.

A lato all' alma Dea trè graziose
Leggiadre Dive fopra il carro ftanno:
Queste le Grazie fon liete, e amorose,
Che 'n compagnia di lei mai sempre vanno :
Di pallide viole, e frefche rofe

Queste gli biondi bei crini cinti anno ÷
Rife la terra, e 'l Cielo, e fece Flora
Liguftri, e gigli nascere ivi allora.

XVII.

O fortunati fempre i tuoi verdi anni
(Diffe la Dea) fe giungi à quel palagio ;
Chiunque fugge gli amorofi inganni
Vive infelice in difpiacer malvagio :
Quello il loco è ; dove non sono affanni,
Mà gioia e fefta, e ogni piacer, & agio:
Quivi ogn'or lieto, e senza caldo, e gelo
Vive ciascun come fi fà sù in Ciclo.

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XVIII.

Jo fon la Dea, ch' ai dolci ingegni done
Gli penfier dolci, e gli dolci defiri;
Vener la Dea del terzo Cielo io sono,
Che dò a i nemici miei fupplici diri;
E chi mi sprezza in crudel foco pono,
E lo pafco di lagrime, e fofpiri;
E fon Regina de leggiadri cori,
Madre di tutti i pargoletti Amori.

XIX.

2

Che giova a l'Uom'aver ville, e caftella
E palazzi fublimi, e gran teforo,
Se fenza aver allato Donna bella
Sen giace in letto Sol penfando all'oro?
Vive miferamente in pena fella;

Nè fente un piacer mai, nè alcun riftoro:
Mà quel c' ha la fua Donna amata allato
Cangiar non dee col Rè del mondo ftato,

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Cofi il dolce parlar m'accese il petto,
Che senza altro parlar rifpofi andiamo
Seguo il bel carro, e verso l'alto tetto
Di quel Rè altier cantando c'inviamo;
Dopo lango falir giungo a un boschetto
U, gli arbori han di fior carco ogni ramo;
Da man divina fabricato il bello

- Palazzo è pofto nel mezo di quello,

XXI,

Tutto di gemme preziose adorno
Quivi il palagio ful bel monte fiede:
Sempre ivi mena il Sol fereno il giorne
Perche più bella cofa mai nonvede :
Freschi fonti lo bagnan d'ogni ntorno
E lor chiarezza à neffuna altra cede:
Quivi foavi accenti al Ciel gli augelli
Spargon trà i vaghi, e floridi arbofcelli,

XXII.

Si dice che quei begli arbori, e fonti,
E tutte quelle preziose pietre

Traffer colà dalle cime de monti

Febo, e Anfione al fuon delle lor cetres
E quivi poi gli amori arditi, e pronti
Depofti avendo gli archi, e le faretre,
Di quelle fenno il bel palazzo in mezzo
Di quei fonti, e arbofcelli, v' fempre é il rezzo.

XXIII.

Mà a Febo, e ad Anfione, che 'n quel loço
Traffer le belle pietre a i dolci accenti
Amor, che lor dovea dar fefta, e gioco
E per tal merto ogn'or farli contenti :
Ingrato fù, che poi gli pose in foco,
E gli fà mefti pafcere gli armenti;
L'un pianfe per Tefaglia, e Delo, e Cinto,
L'altro induffe pietade in l'Aracin to,

XXIV.

D'ogni banda ha il palazzo un' ampia loggią
Fatta da eccellentiffimo Architetto:
Le colonne fon d'oro; ove s'appoggia
Il nobile amorofo altiero tetto:

Gli embrici, che non mai fenton ria pioggia ¿
Tutti d'argento fon lucido, e schietto:

Li camini e gli merli tutti quanti
Son fatti di fmaraldi, e di diamanti:

X X V.

Le camere leggiadre, e l'ampie fale
D'avorio fon, con tutti i camerini ;
E quei di fotto, e quei dove fi fale,
Co i pavimenti tutti di rubini:
Li groffi travi,i gradi delle scale,
Feneftre,e gli ufci, e grandi, e piccolini
Son tutti di finiffimi alabaftri,
Fatti con arte da divini mastri.

X X V I.

Si veggon di zafiri, e di cristalli,
E di piropo fplender l'alte mura;
E d'altri marmi azurri, verdi, e gialli;
Di che i più begli mai non fè Natura
Nè indi lontane troppo, fon due valli
Piene del tofco,che l'ingegno fura;
Nel qual gli amori bagnano i lor ftrali,
Per dar a i cori, colpi aspri, e mortali.

D

XX VII.

Con arco in mano, e con faette a i fianchi
Il tetto altier cingon gli crudi Amori;
Non fazi mai di far pallidi, e bianchi
Gli Uomini, e porli in mille ciechi errori
Mà poi che diventar miei lumi iftanchi;
Mirando delle pietre i bei colori :
Mi volfi; e vidi affai pitture belle,
Ch'un Dio dipinfe, e non Zeufi, nè Apelle,

XX VII I.

Li gentili coftumi di quegli anni
D'oro, quivi fù un muro eran dipinti s
Quando aftuzie non erano, nè inganni,
E gli odii tutti, e tutti i sdegni eftinti:
Gli Uomini fi vedean senza gli affanni
Di belle fcorze, e verdi gionchi cinti:
Commune era ogni cofa, e mai non cra
I Verno allor, mà fempre Primavera.

XXIX.

Davan i frutti le campagne intatte,
Nè 'l bue fentiva il giogo afpro, e crudeleg
Correan i fonti, ei fiumi puro latte,
E ogni arbofcel fudava dolce mele:
Non usavan ancor le genti matte
Il crudo ferro, e perigliofe vele :
Regnava al Mondo una continoa pace,
Una concordia un dolce amor vivace,

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