Che buoni erano, e pii; da cotal porto, E da spiaggia sì ria Nettuno steffo Spinfe i lor legni, e diè lor vento, e fuga Tal, che fuor d'ogni rischio gli condusse. Gia roffeggiava d'oriente il balzo,
E nel fuo carro d' oftro ornata, e d'oro L'aurora fi traea de l'onde fuori : Quando fubitamente ogn'aura, ogn' alito Cefsò del vento, e ne fu'l mare in calma Sì, ch'a forza ne gìan de' remi a pena. Qui la terra mirando il padre Enea Vede un ampia foresta, e dentro un fiume, Rapido, vorticofo, e queto infieme: Che per l'amena felva, e per la bionda Sua molta arena, fi devolve al mare. Quefto era il Tebro, il tanto defiato, Il tanto cerco fuo Tebro fatale: A le cui ripe, a le cui felve intorno, E di fopra volando ivan le schiere Di piu canori fuoi paluftri augelli. Allor via (dice a' fuoi) volgete il corfo,
Itene a riva e tutti in un momento
Rivolti, e giunti, de l'opaco fiume Prefer la foce, e lietamente entraro.
Porgimi, Erato, aita a dir quai Regi, Quai tempi, e quale ftato aveffe allora L'antico Lazio; quando prima i teucri Con queft' armata a'fuoi liti approdaro; Ch'io dirò da principio le cagioni, E gli accidenti, onde con effi a l'arme Si venne in pria: dirò battaglie orrende : Dirò stragi d' eserciti, e duelli
Di Regi stessi, e la Toscana tutta, E tutta anco l'Esperia in arme accolta. Tu d'Elicona Dea, tu ciò mi detta, Ch'altr'ordine di cofe, altro lavoro, E maggior opra ordifco. Era fignore, Quando ciò fu, di Lazio il Re Latino, Un Re, che veglio, e placido gran tempo Avea'l fuo regno amministrato in pace. Questi nacque di Fauno, e di Marica Ninfa di Laurento, e Fauno a Pico Era figliuolo, e Pico a te Saturno, Del fuo regio legnaggio ultimo autore. Non avea quefto Re ftirpe virile
Com'era il fuo deftino, e quella ch'ebbe, Gli fu nel fior de' fuoi verd' anni ancisa. Sola d'un fangue tal d'un tanto regno
Restava una sua figlia unica erede, Che gia d'anni matura, e di bellezza Piu d'ogn'altra famosa, era da molti Eroi del Lazio, e de l'Aufonia tutta Desiata, e ricerca. Avanti a gli altri La chiedea Turno, un giovine il piu bello, Il piu poffente, e di piu chiara ftirpe, Che gli altri tutti. E piu ch'a gli altri a lui, Anzi a lui fol, la sua Regina madre Con mirabile affetto era inchinata. Ma che sua sposa fosse, avverso fato, Varj portenti, e spaventofi augurj Facean contefa. Era un cortile in mezzo A le stanze reali, ove un gran lauro Gia di gran tempo confecrato, e colto Con molta riverenza era serbato. Si dicea, che Latino effo Re fteffo Nel defignare i suoi primi edifizj Là ve'trovollo, di fua mano a Febo L'avea dicato: e ch'indi il nome diede A'fuoi laurenti. A quefto lauro in cima Meravigliofamente di lontano Romoreggiando a la fua vetta intorno Venne d'api una nugola a pofarfi,
E con l'ali, e co'piè l'una con l'altra, E tutte infieme aggraticciate, e ftrette Stier d'uva in guifa a le fue frondi appefe. Ciò l'indovino interpretando; io veggo (Diffe) venir da lunge un duce esterno, Ed una gente, che d'un loco ufcita
In un loco medesmo fi rauna,
Ed altamente ivi s'alloga, e regna. Stando un giorno, oltre a ciò, Lavinia virgo, Sacrificando col fuo padre a canto, Ed a l'altar cafte facelle offrendo ; Parve (nefanda vifta!) che dal foco Foffero i lunghi fuoi capelli apprefi, E che stridendo non pur l'oro ardeffe De le fue treccie, ma'l fuo regio arnese, E la corona fteffa, che di gemme Era fregiata. Indi con rogio vampo Con nero fumo, e con volumi attorti S'avventaffe d'intorno, e l'alta reggia Tutta di fiamme empieffe. Orrendo mostro, E di gran meraviglia a chiunque il vide. Gli auguri ne dicean, che fama illuftre, E gran fortuna a lei fi portendea, Ma ruina a lo ftato, e guerra a'popoli.
A quefti moftri attonito, e confufo Il Re tosto a l'oracolo di Fauno Suo genitor, ne l'alta Albunea felva Per configlio ricorfe. È quefta felva Immenfa, opaca, ove mai fempre fuona Un facro fonte : onde mai sempre esala Una tetra vorago. Il Lazio tutto, E tutta Italia in ogni dubio caso Quindi certezza, aita, e'ndrizzo attende. E l'oracolo è tale. Il facerdote Nel profondo filenzio de la notte, Si fa de l'immolate pecorelle
Sotto un covile, ove s' adagia, e dorme, Nel fonno con mirabili apparenze Si vede intorno i fimolacri, e l'ombre Di ciò, ch'ivi fi chiede: e varie voci
Ne fente e con gli Dei parla, e con gl'inferi. In questa guisa il Re Latino stesso
Al vaticinio del fuo padre intento,
Cento pecore ancide, e i velli, e i terghi Nel fuol ne ftende, e vi s'involve, e corca. Ed ecco un'alta repentina voce,
Che de la felva ufcendo intuona, e dice :
In van figlio procuri, in van t'imagini,
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